HANNO DETTO DI LUI
Ecco perché nei quadri di Demos si vedono, come in filigrana, De Pisis, Guttuso e quindi la scuola di Cezanne...
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HANNO DETTO DI LUI
DALLA PREFAZIONE DI “DEMOS. IL MARE DI RIMINI” EDIZIONE TRADEMARK ITALIA 2005
Ecco perché nei quadri di Demos si vedono, come in filigrana, De Pisis, Guttuso e quindi la scuola di Cezanne. Tre modelli artistici che si aggirano tra paesaggi e nature morte, fra giacche e sciarpe nel guardaroba e gabbiani che si impennano improvvisamente per volare
nel cielo.
Verso Demos, pittore dei migliori anni della nostra vita, abbiamo tutti un motivo di riconoscenza non solo perché ci lascia guardare nella nostra memoria per dir così, con gli occhi di allora, ma perché la qualità anche morale di ciò che
essa richiama alla mente - lo capiamo oggi - aveva la natura per durare e per prolungare la memoria della nostra vita e per ricordarci cose e persone che l’hanno resa amabile e degna di rimpianto.
Vorrei togliere qualunque possibile sospetto di paesanità, di folklore, e soprattutto di indulgenza a chi legge queste righe dedicate a Demos Bonini, “artista in Rimini”, come si sarebbe scritto in una cronaca rinascimentale. Demos fa parte di quella razza di artisti
umanamente estinta che continua a farsi rivedere nei sui quadri. E noi per questo, a ciglio asciutto, siamo qui a parlare di Demos perché c’è ancora qualcosa da dire.
Sergio Zavoli
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Artisti dimenticati & I "Periodi" di Demos Bonini
Dal Corriere Romagna - Lunedì 29 Ottobre 2012
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Tra favola e realtà
Il tono della pittura di Demos Bonini è sospeso tra la favola e la realtà; è ancora evidente la sua radice realista sotto le divagazioni fantastiche che caricano le cose di simboli e di significati nascosti.
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Questa operazione è condotta con estremo pudore, quasi che il pittore
ritenga arbitrario tagliare ogni legame tra le sue immagini e la verosimiglianza con le situazioni reali. L’implicazione fantastica non travolge le regole che governano le cose: circostanze dunque verosimili dentro situazioni logiche. Una pittura realista con un desiderio surreale; un racconto
intimista che si muta in favola. Mutandosi in favola tende a coprire uno spazio più largo, può dire cose amare con dolcezza, può innestare il ricordo al presente, contiene implicita una morale. Il protagonista di questo racconto è un indumento, quasi sempre una giacca, appeso
o abbandonato un po’ dappertutto; che è poi la storia di un uomo che ci lascia un segno, non riesce o non vuole far perdere le sue tracce e così ci è facile sapere di cosa è animata la sua malinconia, dove insegue la speranza, quali sono le origini delle sue illusioni
e delusioni.
Inseguiamo allora questa giacca che molto presumibilmente è quella di Demos stesso. Eccola appesa ad una quinta; sul fondo un gabbiano vagabondo sopra un mare turchino. L’uomo proprietario della giacca si è tramutato in gabbiano; l’indumento appeso è il segno che ci ha
lasciato; lui ha messo le ali per volare sul mare della sua giovinezza, sentirne l’antico profumo di libertà, vivere il ricordo della sua misteriosa suggestione. O la giacca sgualcita abbandonata sull’erba, verde ricamo di un prato, diventare essa stessa simbolo di un uomo inerte,
solo e smarrito. E’ ancora la giacca sul terrazzo, su una sedia, contro gli alberi dell’inverno e poi della primavera e raccontarci un viaggio sentimentale sul tessuto di una cronaca struggente di provincia.
Eccoci dentro il mondo di Demos: un ripensamento della sua vita attraverso il viaggio che fa compiere alla sua giacca. Un giudizio amaro se è vero che quell’indumento-simbolo è ormai diventato come una pelle, come l’involucro disseccato e disabitato di ciò che è rimasto
della sua vita; ma un giudizio anche intriso di emozioni, di ricordi trepidanti di nostalgia, di lieviti poetici.
Demos rincorre la storia della sua vita con pudore, quasi con leggera ironia; le allusioni si stemperano nella cordialità della sua immagine pittorica che assume spesso toni così garbati da poterla godere senza avvertire l’allarme del suo significato nascosto.
Un pittore quindi delicato nei modi e acuto nella sostanza dolorosa del suo mondo poetico dove il tempo del passato ritorna a illuminare le nostre delusioni dove il bisogno di libertà assume il carattere di un desiderio impossibile che vola su di un mare misterioso; ma dove anche la cognizione
stessa della delusione diventa un momento per capire, per ripensare, per continuare a sperare. Questa è la morale delle favole di Demos Bonini.
Il mare, il cielo, il prato, gli alberi, la natura tutta, proteggono quella giacca-simbolo sgualcita e invecchiata, ma ancora intrisa del calore dell’uomo
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Alberto Sughi
Da Demos Bonini, Galleria dArte Russo, Roma 1971
All’origine
Caro Demos, trovo molto felice la scelta dei quadri per la mostra romana. E’ forse la tua rassegna più omogenea, quella che ti rappresenta meglio.
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Temevi sul serio per le tue giacche?
Pensavi davvero che questa ostinatezza nel riproporle potesse significare qualcosa di riduttivo del tuo talento e del tuo animo?
Io che le ho viste tutte, o quasi, dal ‘45 ad oggi, le ho trovate sempre più esemplari del tuo modo di essere. Ma poi, un artista non racconta sempre, qualunque sia la forma che sceglie, la stessa cosa? Non eri tu a dirmi che un’idea deve poter diventare un’ossessione?
Oggi, nei tuoi quadri, è ben visibile il segno di questa moralità. La verifica all’origine di ciò che sei non riconduce a qualcosa di sentimentale, non tende affatto alla nostalgia, al recupero di un piccolo mondo consolatorio e pacificante. Non sono tutte
là, all’origine, le cose che ti hanno ferito e che ti feriranno?
Ricordo le prime giacche, nel chiuso delle stanze e delle botteghe, tutt’uno con i muri, erano appese senza neppure un indizio di speranza. Oggi le ho viste sull’erba, spesso hanno accanto il mare (un mare fermo, ma poi il vento lo muove), lontane dai muri, come se la vita
tentasse di prendere le sue distanze perché un confronto sia ancora possibile, perché non è vero che tutto è concluso.
Verrò alla mostra, salvami una giacca.
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Federico Fellini
Roma, 24 febbraio 1971
Galleria d’arte Russo, Roma 1971
Normale, poetica insistenza
Aragon lo chiamava il “normale poetico”: non ingenuo gusto del semplice, pigra accoglienza del quotidiano, facile amicizia col naturale; al contrario, questa normalità chiede a un artista molte fatiche e virtù, come ad esempio l’esser metodici e
non abitudinari, tecnici e non esteti, poeti e non sentimentali, religiosi, semmai, e non mistici.
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Demos Bonini, che cresce nella bottega del padre e si forma alla scuola di Urbino, ha dunque origini umane e artistiche ben garantite della probità artigiana, sa come intendere
quelle due parole, apparentemente innocenti, di Aragon.
Sa cioè che la vita di un artista è, in fondo, di una straordinaria, nutriente monotonia, e che soltanto un dilettante o un superficiale può illudersi di creare uno scandalo ad ogni stagione. Sinisgalli applicò a Cantatore, un maestro, questo giudizio e
non risulta che il pittore pugliese l’abbia mai rifiutato nel suo esodo contadino, né a Parigi né a Brera.
Demos, che ha dato tutte le sue prove e fatto tutte le sue verifiche dove è nato, cioè sul mare, ha la severa monotonia di chi tiene in sospetto ogni sorta di simulazione; si confronta ogni giorno col risultato di ieri, misurando animo e materia non sul patetico e sul
casuale, tenendosi non ai rami fuggevoli della fantasia, ma al tronco presente della coscienza, immaginando non per inseguire sensazioni ma per formare una ragionata ossessione.
Le giacche non sono il gioco emblematico di chi, diffidando dell’uomo, lo svuota del suo corpo perché non gli riconosce nobiltà e sofferenza; le giacche sono il segno ambiguo di una presenza che ha la forma insostituibile dell’uomo, sono la nostalgia del ritorno
più che l’accettazione della partenza. Del resto, la scelta elettiva di Demos (il meno migrante degli uomini) sarebbe quella di stare, di vivere e rivivere una occasione sola.
Ma la vita porta via e allora c’è in questi uomini rimasti appesi ai luoghi abbandonati per amore, il presentimento di un esodo che, attraversato tutto il deserto, rifarà la sua strada, perché la Montagna è alle spalle.
Demos non fa operazioni surreali sulla carne dell’uomo; se l’uomo non c’è, perché l’hanno messo in fuga insopportabili ingiurie, rimane amorevolmente intatta l’orma lasciata dal suo passaggio.
Normale e poetica è proprio questa insistenza nel ricondurre davanti ai nostri occhi il simulacro dell’uomo assente, nel ridarcene l’immagine inchiodata nei luoghi dolorosamente ripudiati, nel mostrarci gli oggetti del suo rifiuto: dai grattacieli ora fondati persino
dentro il mare (cioè qualcosa che occupa gli spazi non più difendibili della memoria), alle case, alle spiagge, alle campagne dove la vita ebbe il suo poetico e civile momento di tregua e di impegno fra nascita e morte.
Finita la stagione delle ipotesi, persuaso (a torto o a ragione, non sta a me dirlo) degli inganni subiti, ma certo consapevole che l’uomo lungamente amato non c’era più (non nella casina di via Dante, non nei soppalchi lasciati come tante “stazioni” nel
suo cammino dentro la città, non nei sodalizi con cui aveva cresciuto l’immagine radicale di una società nuova) ha dichiarato sulla tela la fine del suo impossibile rinascimento, denunciando un viaggio fin troppo amato, lungo il quale l’uomo ha lasciato indizi
di sé: giacche come orme, appunto, reperti di una storia che solo qualche gabbiano, o cieli di colpo rabbuiati, o porte dischiuse, o pareti cadute, dicono ancora salvabile, ancora aperta a una speranza mai rinnegata perché mai rimpianta.
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Sergio Zavoli
Da Demos Bonini, Edizioni d’arte Ghelfi, Verona 1972
Il successo di Fellini è anche colpa sua
C’è una donna, a Rimini, che quando, per la strada, s’imbatte nel pittore Demos Bonini, con un profondo sospiro d’amarezza rievoca il passato di suo figlio.
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E se non fosse che tra Demos Bonini e la donna è sempre esistito un rapporto di profonda amicizia, il pittore sarebbe indotto a credersi responsabile della disgrazia capitata al figlio della donna la quale, tra il benevolo e il rassegnato, scuotendo il capo, ogni volta ripete
a Bonini che lo si deve proprio a lui se adesso il figlio non vive a Rimini e non è diventato, come avrebbe potuto, uno stimato professionista della città. Un avvocato.
Il figlio è Federico Fellini, amico d’infanzia di Demos Bonini. Fellini e Bonini, ragazzi della stessa età e un po’ diseredati ma non certo privi di fantasia, s’erano uniti e avevano fondato una piccola società che si chiamava FE-BO a testimonianza
della perfetta divisione delle forze.
I due giovani dipingevano e lo scopo della società era quello di creare pannelli reclamistici delle pellicole che il sabato e la domenica si proiettavano al cinema Fulgor, sul corso principale della città. Non c’era altro da fare.
La fortuna non arrideva ai due ragazzi la cui fatica non era quasi mai compensata in misura soddisfacente. Sennonché dei due, uno, il Bonini, era più ottimista dell’altro e fu proprio per iniziativa di Demos che Fellini spedì a un giornale di Firenze alcune
sue vignette ottenendo in risposta una bella cifra e l’invito a continuare una collaborazione appena nata.
Quell’episodio causò il trionfo e la fine della piccola società dei due ragazzi: Fellini prese una strada diversa da quella di Demos il quale rimase radicato a Rimini a dipingere sentimenti, delusioni, amori e stati d’animo vissuti di pari passo col fluttuante
ritmo della sua città, metropolitana in estate e pigra e chiusa in inverno nell’antico labirinto di straducole e di riflessioni.
Fellini è diventato grande regista a Roma ma il successo di Federico è rimasto, per la mamma dell’artista, una sorta di macchia sulla coscienza di Bonini ed è per questo che ogni tanto l’incontro casuale della signora Ida con il pittore finisce col
profondo sospiro della donna che avrebbe visto più volentieri suo figlio diventare, sotto i suoi occhi, un avvocato di Rimini.
Demos Bonini sorride. La sua vita, invece, si realizza per intero nella città che lo ha visto nascere: se Bonini parte da Rimini lo fa solo per seguire da vicino una mostra a Roma o a Milano oppure per cercare, in un paesaggio nuovo, un rapporto più intenso col mare.
Bonini è forse la creature più “ammalata” di mare che esista al mondo e la realtà, soprattutto sotto un profilo gastronomico, è testimoniata dal fatto che quando il lavoro glielo consente, i vecchi amici di Bonini, a cominciare da Fellini,
volano a Rimini per passare una serata nella casa del pittore il quale si trasforma in cuoco di rara abilità realizzando, sulla graticola, le saporose ricette dei pescatori dell’Adriatico. Da Fellini a Sergio Zavoli, dagli artisti agli antichi e più umili amici
d’infanzia emigrati nelle grandi città, tutti, di tanto in tanto, si ritrovano nella casa di Bonini, a Rimini, dove in un misto di fumo e di saraghina allo spiedo, di piadina calda e di sangiovese d’annata scoperto nella buona cantina d’una canonica di campagna,
rivivono i sentimenti e le storie dell’infanzia assieme ai sogni che il pittore coltiva esprimendoli con poetica e profonda amarezza nelle sue famose “giacchine”, tema ricorrente d’una costante ricerca d’evasione di fronte all’incalzante, distruttiva
civiltà del cemento.
Quando gli amici se ne vanno, molte volte di notte, dopo la sera trascorsa a tavola, con Bonini cuciniere dei pesci più modesti ma anche più gustosi dell’Adriatico, Fellini lo stuzzica: “vieni a Roma con me?”.
Ogni volta, dopo l’abbraccio, puntualmente Bonini risponde di no, che lui resta qui, perché dove lo trovi, lontano di qui, un mare che ti conosce in fondo all’animo, che custodisce tutti i tuoi pensieri?
Va bene così, per Demos Bonini che si sazia degli incontri con gli amici che “fuori” hanno fatto fortuna e che torna, ogni volta più ricco, a vivere nel suo studio, col camice bianco come un farmacista oppure sulla riva del mare, felice d’aver scelto
questa strada, tra ragazzi dei quali Fellini ha raccontato la storia nei “Vitelloni”.
Dal suo angolo il mondo acquista una dimensione chiarissima. Nella poesia di Bonini, nei suoi colori e nelle sue immagini, l’uomo si ritrova con tutto il disagio della vita di oggi, consumistica e dispersiva, con una giacca abbandonata sulla sedia, e una libertà impossibile.
Ma la “giacchina” abbandonata di Bonini è solo una giacca o non è forse l’uomo che si abbandona sulla sedia ormai vinto dalla realtà?
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Sergio Neri
Da “Amica superestate”, anno IX. n. 27. Milano 4 luglio 1972.
Un lungo itinerario in mezzo all’uomo
L’opera “grafica” di Demos Bonini è esemplare. Essa appare anzitutto rivelatrice, e non è poco, di una sorprendente capacità dell’artista di esprimersi e creare servendosi in modo estremamente maturo di tutte le tecniche, di fare con esse
costantemente della “pittura” nel senso più ampio del termine offrendo una gamma di narrazioni ora squisitamente liriche, ora sprofondanti nel mistero, ora garbatamente satiriche ma condotte sempre, in ogni caso, sul filo d’una acuta introspezione, di un’autentica
profondità interpretativa; introspezione e interpretazione assolutamente naturali e spontanee e percettibili grazie ad un’attenta lettura.
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L’ago della bussola di Bonini l’abbiamo visto puntato, in pittura, assai spesso su un curioso motivo - la giacca - ch’egli ha ripetuto come un “refrain” suscitando peraltro, anche qui, atmosfere sempre nuove, facendo allusioni d’estro freschissimo,
in delicato equilibrio fra grottesco e ironia. E’ divenuto popolare, quindi, il costante motivo della “giacca” apparizione ammiccante in ambienti sempre diversi, spesso totalmente diversi, nelle prospettive più varie chiamata ad indicare più che la
presenza dell’uomo quella della sua anima, della sua coscienza, fino ad assumere intenso valore simbolico.
“Questa - sembra dirci Bonini - è l’involucro di cui nei nostri tempi s’adorna, in cui si chiude. Adesso cercate appunto l’uomo e non faticherete a trovarlo nella dimensione poetica quella che lo rende presente ma invisibile, spirito ovunque incipiente ma eternamente
vagante”. Questo dell’involucro dell’uomo, la crisalide che invece di vederlo nascere lo guarda mentre muore, è però soltanto un episodio ancorché “storico” e perciò estremamente significativo, di questo pittore riminese che ha il mare nel
sangue e ce lo fa sentire come rumore misterioso e riverbero su tutte le cose, spesso in modo diretto ma talvolta in forma indiretta ma non per questo meno efficace, nei canneti, nei cieli nuvolosi, nei “nocchi” negli arbusti, nelle foglie, nelle spiagge. Tuttavia nella “grafica” l’elemento
surreale non predomina, il simbolo non si avverte quasi più, il discorso si stende in modulazioni più agevolmente riconoscibili anche se altrettanto intense e vibranti.
Ecco allora Demos Bonini “grafico” orientarsi ovunque vi siano, percettibili al suo “radar” cosmico, possibilità d’ispirazione e d’indagine psicologica, notazione di costume e di vita o, semplicemente, richiamo di suggestione estetica; tutto
ciò concepito quasi come sollecitazioni dell’inconscio. I motivi arguti che nelle giacche sono portati al diapason di una lucida ossessione, di un’esasperazione della memoria li ritroviamo, in altre forme avulsi da un ceppo unico ma distribuito in tanti tronchi
diversi ricchi di umori, nelle figure al mare o all’osteria, nei ritratti, tra i pescatori, perfino tra i chirurghi attorno al tavolo operatorio e, naturalmente, tra quelle macchine che della nostra epoca - e sta qui l’aggancio più evidente alla perenne attualità dell’uomo
- sono l’emblema più eloquente ed anche rumoroso; ma è un fracasso che Bonini sa magistralmente ridurre a silenzio poetico, a stupefazione metafisica. Un mondo domato dopo esser stato evocato.
La purezza e l’incisività del segno che fa rivivere in termini poetici la forma e la riassume. Sarebbe anzi prontissima ad accogliere, nel suo abbraccio, il colore ma anche così, a volte bloccata con energia dalla linea spessa, talaltra sottilissima oppure accennata
con una sorta di sfumo o di velatura, questa forma pulsa di esistenza propria, irripetibile. Così, con i disegni, gli acquarelli, gli inchiostri, i “carboni”, le xilografie, le puntesecche, i “pennarelli” Bonini ci fa percorrere, emozione dopo emozione,
un lungo itinerario in mezzo all’uomo, con o senza giacca; un viaggio nello spirito, nell’ambiente, nel lavoro dell’uomo ovunque l’occhio sensibile dell’artista abbia “visto” o “immaginato”. Ma nulla di convenzionale vi è in
questo pellegrinaggio: ogni immagine, scaturita da una tecnica sapiente e impeccabile, priva di virtuosismo, è concepita in chiave poetica e tanto basta a porla su un piano ideale, a sottrarla all’usura del consumo, a farla più spirito che materia.
In Bonini si coglie una strana capacità di sognare da sveglio, di fantasticare occupandosi senza ambasce di tutto ciò che è più reale, di idealizzare su un piano di assoluta concretezza, di costruire il pensiero servendosi di tutto ciò che è più normale,
corrente, senza funambolismi. Valga per tutti un esempio: quello della motocicletta, dopo quello della giacca. La motocicletta è aggeggio molto comune; ma una montagnola di motociclette significa già l’ingresso a vele spiegate nell’invenzione, nella filosofia,
nella dimensione onirica. Un’impostazione colta, un poco letteraria nel senso migliore del termine. Bonini non fa dell’ermetismo gratuito, svegliando il cuore ma non certo colpendolo con armi romantiche, per arrivare razionalmente al cervello, in modo a volte scanzonato,
sulla strada più difficile, costellata di diavolerie sottilissime, terribilmente umane
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Franco Ceriotto
Da Grafica di Demos Bonini, Edizioni d’arte Ghelfi, Verona 1973
Al porto della memoria
Tra gli artisti che la Romagna generosamente nutre, appagandoli con la sua bellezza di terra e sempre richiamandoli con struggenti nostalgie, Demos Bonini è tra i più schivi, taciturni, appartati e al tempo stesso quello più elegante, filosofo, conservatore.
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Un uomo dalle inquietudini profonde e la disponibilità immediata, la capacità poliedrica, i capricci improvvisi e le tenacissime fedeltà.
Per molti lati somiglia, come carattere, a Federico Fellini che cominciò a mescolare i colori con lui, in una bottega di Rimini. “… lavoravamo per la pubblicità del cinema Fulgor” - scrive Fellini - “Per ogni manifesto quattro ingressi in galleria”.
Poi Demos è diventato pittore. Portarlo via da casa è sempre stata un’impresa, com’è del resto un’impresa trovare una pittura altrettanto libera, di una moralità così salda e fedele … “E’ vero, ma è solo
parte del vero”.
Le evasioni di Bonini, anche quelle di cui era preparato minuziosamente il ritorno, hanno avuto caratteri definitivi per la sua spiritualità.
Fuggire, oggi è una questione di trasferimento da un luogo all’altro. La terra è diventata troppo angusta, specie per un pittore che - se vuole ritirarsi in esilio - deve sempre avere a portata di macchina un negozio di colori.
Si ha un bel sognare rifugi claustrali, isole deserte, eremi irraggiungibili: il giorno che finisce la scorta di sigarette, l’ultima bottiglia è stappata e l’indicatore della benzina segna rosso si entra in crisi e si corre disperatamente al primo telefono pubblico
a chiamare i pompieri per un incendio immaginario, si pagherà la multa ma il carro attrezzi ti riporterà nella odiata-amata civiltà.
Così è Demos, che cento volte ha preso la sua barca e ha innalzato la vela della libertà e cento volte è tornato indietro, nella sua Romagna carica di suggestioni, ricca di vita, calda d’amicizia. Cento volte ha appeso al chiodo la giacca da marinaio,
la camicia inzuppata d’acqua salsa, il berretto stinto, e altrettante ha ripreso questi simboli di libertà per ripartire. Tra una fuga e un’altra ha dipinto, disegnato, lavorato il rame col mazzuolo e la fiamma ossidrica (non a sbalzo come erroneamente annotano)
ha inciso sul legno e sullo zinco, ma nel suo studio la presenza affettuosa, vigile, invitante della vecchia giacca da marinaio gli ha lasciata aperta la porta verso l’avventura.
Carica di vento e di sogni, di delusioni e di sale, la vecchia giacca di Bonini passa direttamente dalla barca alla poesia. Quanti di noi hanno palpitato di gioia e di speranza tirando su l’ancora e issando la vela:
non necessariamente un’ancora di ferro e una vela di tela, anzi la maggior parte dei nostri viaggi alla ricerca della misura felice dell’esistenza, verso la conquista della dimensione equilibrata di noi stessi sono stati compiuti ad occhi chiusi, nell’immobilità della
meditazione: e quante volte siamo tornati al porto della memoria di un tempo e a una condizione di cui troppo tardi abbiamo scoperto la coscienza della felicità.
Chiunque di noi ha la vecchia giacca della giovinezza appesa al chiodo della vita, conficcato nella parete più illuminata dell’anima e conosce il percorso per arrivare alla darsena segreta dove attende il battello intatto del nostro ideale. Coraggio, partiamo!
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Ugo Moretti
Da Quaderni Artisti Italiani d’oggi, n. 72, Edizioni d’arte Ghelfi, Verona 1975
L’ultimo pittore
L’ultimo pittore a cui si deve un vero contributo all’iconografia riminese è, credo, Demos Bonini, autore di dipinti che costituiscono una critica spietata alla città moderna in espansione con i suoi anonimi alberghi-condominio fin sulla spiaggia e nel
mare; una città non più fatta a misura d’uomo, ma di se stessa, che può quindi accrescersi indefinitamente in uno spazio irreale, in cui è rimasto dell’uomo solo un ricordo labile, privo di contenuti e di valori: una giacchetta stinta, cioè un
fantasma vuoto e immobile, una memoria senza sensi, incapace di dare ordine alla nuova realtà urbana e di impedire la distruzione de l’ultima casa.
Pier Giorgio Pasini
Da Rimini città come storia, edit. Giusti, Rimini 1982
Cinquant’anni di pittura
Presentando la mostra di un pittore ancora operante si rischia di commettere un peccato di presunzione, poiché si dovrebbe ascoltare anzitutto la sua testimonianza.
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In un certo senso si prova 1’impressione di una “violazione di domicilio”. Chi scrive vorrebbe
interpretare, per chi guarda, immagini altrui, sostituendo ad esse parole che rispecchiano il proprio pensiero. Entrare nello studio di un pittore, ingombro di quadri accatastati e oggetti dei quali si ignora la storia, suscita, in chi li osserva per la prima volta, timori e pudori.
Si rischia di fare come certi medici frettolosi che stilano una diagnosi dopo un’occhiata e si liberano con una semplice ricetta.
Eccomi dunque a cercare di porre ordine tra questi quadri, e tuttavia quest’ordine è il mio, non quello del pittore. Scrivendo questa presentazione sono tentata di ricondurre tutto a fatti noti e dati precisi entro i quali ogni segno possa assumere significati obiettivi
e tranquillizzanti. Mi accorgo, invece, che parlare di pittura conduce spesso a tradirsi e a tradire, mentre dovrebbero essere in primo luogo parlare di chi l’ha fatta e del mondo che lo circonda.
Se penso al mondo di Demos Bonini la memoria ritrova le immagini dei film di Fellini e delle poesie di Tonino Guerra: immagini di grandi solitudini vissute tra la spiaggia, un mare mesto di orizzonti troppo limitati, luogo di pesca quotidiana, non abbastanza vasto per invitare
a salpare verso terre lontane, e una campagna aspra dove ogni lembo di terra ha messo alla prova la pelle ruvida di chi la lavora.
E’ una terra in cui si consumano interminabili attese che sfumano in miraggi e fantasie: il passaggio del Rex, di un principe, di Nuvolari, della Gradisca al Corso, della Saraghina sulla spiaggia.
Il vitellone consuma la propria attesa tra il sonno, il ricordo e la conquista, marcando il tal modo, vero Don Giovanni di provincia, il proprio isolamento. E anche l’amore qui è vissuto in densa solitudine, mai cedendo a inclinazioni troppo sentimentali, se è vero
che di un matrimonio l’atto più forte di unione non è la carezza, ma il litigio. Prima della guerra Rimini è una tranquilla città di provincia ravvivata, durante l’estate, da turisti abitudinari ma non invadenti. Fino a questo momento i
pittori riminesi, chiusi in un conservatorismo tenace, avevano coltivato un’arte evocatrice di elegiaci, intimi colloqui, di memorie e sentimenti di ispirazione pascoliana.
Pasquini, Cupi, Curugnani, Pazzini, Ravaioli - pur svelando una felice vena pittorica e, nel caso di Curugnani, raggiungendo talvolta un certo lirismo espressivo - rimanevano legati ai modi dei macchiaioli e di un tardo impressionismo, sfibrati e lontani dalla più vasta
realtà che li circondava. Ma la pittura di questi riminesi si faceva per i pochi salotti partecipi di un mondo di echi crepuscolari, estraneo alle tensioni artistiche nazionali.
Lontano dal mondo di questi pittori, più presente a quello dei lavoratori della sua terra, già nelle sue prime opere - verso la fine degli anni ‘40 - Bonini svela una decisa inclinazione a fermare la realtà fisica delle cose e delle persone in piccoli
appunti sparsi, tracciati con forza ed estrema semplicità, e si oppone ostinatamente ad ogni illusione posta tra lo sguardo e la realtà.
Accade così che il Ragazzo nello studio si trovi schiacciato contro la parete e mostri impacciato, sotto il camuffamento del “vestito buono”, tutta la solitudine e la mestizia del carattere.
In Piccolo scrittore pochi segni e rapide macchie di colore sono sufficienti per rendere con sottile humour una delicata notazione psicologica e umana.
Mentre l’affetto lo induce a divergere dall’eccessivo rigore nel Ritratto di Ada, in cui la tappezzeria è da sola una dichiarazione d’amore per la festa di colori che svolge alle spalle della figura.
Alla fine degli anni ‘40 Rimini è un abito troppo stretto per Bonini. La città si riprende lentamente dalle ferite della guerra e la ricostruzione è orientata decisamente verso il recupero e il rafforzamento delle attività turistiche. L’arte
si arena tra gli impacci di una tradizione un po’ ingombrante e solo Celso Miselli, con timidi tentativi di orientamento non figurativo, e Vincenzo Malice, con toni di surrealismo espressionista, intraprendono vie diverse.
Roma, invece, si propone come luogo di nuovi e fecondi incontri per chi vuole, come Bonini, perseguire un rinnovamento dell’arte in senso realista: il cinema di Rossellini, De Sica, Zavattini mette sullo schermo gente della strada, operai e contadini veri; la pittura di
Guttuso rompe decisamente con il populismo novecentista e si fa di carne e sangue, specchio delle fatiche della gente comune.
Demos si trasferisce a Roma nel 1949; per due anni frequenta lo studio di Guttuso, gli accende la stufa la mattina, lo osserva al lavoro. E’ lo stesso Guttuso a presentare la prima personale romana di Bonini nel gennaio del 1951 esortandolo a continuare sulla traccia di
quella che definisce una “vena sottilmente ironica e popolaresca”. Negli stessi anni, a Roma e fuori, Bonini partecipa a mostre collettive accanto a Guttuso, all’Accardi, a Birolli, Leoncillo, Levi, Mafai, Treccani, Vespignani, e altri ancora. Sono mostre, quali “L’arte
contro la barbarie” e il “Premio Suzzara”, nelle quali l’impegno artistico è manifestazione di quello politico e sociale. In queste esposizioni è sollecitata la partecipazione del popolo, non solo nelle vesti di protagonista delle opere, ma
anche in quelle di giudice: infatti la giuria del “Premio Suzzara” è composta di un folto gruppo di critici, più “un contadino e un operaio”.
A differenza dell’amico Fellini che, nel clima di Roma, aveva consegnato Rimini alla memoria trasfigurandola in immagini poetiche, Demos sente che la capitale, pur dandogli molto, toglie sentimento e forza al suo lavoro. Deve tornare ai marinai nel porto, ai minatori dell’entroterra,
a quella gente che sarà protagonista delle sue opere dal 1951 al 1956. Li osserva poggiare i grossi piedi sul ponte della barca, sulla banchina, curvare schiene scoliotiche e affaticate sull’ultimo carico di pesce, o spingere pesanti carrelli con un affanno che è pur
sempre isolamento, anche quando è lavoro collettivo. Lo stile è di voluta impaginazione popolaresca: abbandonato ogni lirismo, inclina piuttosto alla narrazione popolare, al tono descrittivo e pur sempre partecipe.
Per la grafica sceglie la tecnica della linoleografia proprio per i suoi tratti spessi e robusti con i quali gli è possibile tradurre la pelle ruvida e segnata dal tempo, il carattere ostinato e resistente dei suoi lavoratori. A incoraggiare Bonini in questa ricerca è il
critico Francesco Arcangeli, all’epoca impegnato a seguire, nei brevi soggiorni riminesi, le tracce di quella vita tormentosa e pesante, di quell’ossessiva esistenza fisica che i personaggi conducono nelle pale secentesche di Romagna.
Posso immaginare i dialoghi concitati dei due su quei santi vigorosi, le mani quadrate e bruttate di terra, stigmatizzate da un intenso lavoro nei campi. La rassegnazione alla fatica, lo sguardo dimesso e mesto del carattere che Demos ferma nei suoi soggetti sono, nelle passeggiate
lungo la banchina del porto, intesi anche da Arcangeli: “gente magra - annota nervoso sul taccuino - dagli occhi bruciati, pronta al litigio e capace alle fatiche della pesca”, mentre in città “predomina un tipo dì uomo dimesso, bruno e pacifico,
con volto sovente fiacco e che porta i segni di una intelligenza ancora viva, ma un poco ottusa e ristretta da condizioni sfortunate”.
Verso la metà degli anni ‘50 questo mondo ancora intatto subisce le prime invasioni del turismo di massa; sulla marina si infittiscono alberghi e grattacieli, la spiaggia viene aggredita da ombrelloni e capanni. Marinai e pescatori ormai sono confinati al porto, cacciati
dalla folla dei turisti che prorompe disordinata anche nei disegni di Demos. Non è più l’incisione, ma il banale pennarello a seguire i tratti flosci di tanti personaggi distratti ed estranei distesi al sole. Il brusco mutamento costringe il pittore ad appiattire
il segno, a incominciarlo scialbo come in un’istantanea e a reagire mutando l’eloquio in polemica.
Le stesse mostre organizzate a Rimini in quegli anni, la “Biennale del mare” e i “Premi Morgan’s”, pur vedendo la partecipazione di artisti dì levatura nazionale, scadono a livello di manifestazioni turistiche. La crisi degli ideali e delle
speranze che avevano animato il decennio precedente, vede coinvolti molti intellettuali italiani e procede parallela alla prosperità della nazione. All’orizzonte artistico comincia a profilarsi il movimento informale che, come “ultimo realismo”, viene
a soppiantare ogni istanza realistica precedente creando un linguaggio esente da ogni tentazione populistica e figurativa.
Bonini sì isola e la sua vena immaginativa si accende di polemica. Degli anni ‘60 è un gruppo di opere in cui compaiono personaggi famosi: con uno stile da rotocalco illustrato compone quadri satirici e umorali nei quali lo spazio è soffocato da queste
presenze assillanti o da gente comune immersa in un isolamento catalizzato non più dagli oggetti di lavoro, ma dalla televisione.
Agli inizi degli anni ‘70 la vena polemica prende due strade diverse. La più aspra si beffa dei miti moderni: nascono grandi quadri, come Tutti prigionieri nello stesso condominio, dove i personaggi più noti della vita pubblica sono collocati in una
sorta di moderno inferno dantesco distribuito in un grattacielo; e La calata dei giustizieri dai toni pesantemente dissacratori. Sulla stessa linea si colloca anche La grande piramide, un’iconografia pop di sapore casalingo in cui la centauromachia moderna
si converte in invenzione poetica di gusto ecologico.
La seconda via è disseminata di giacche i cui precedenti possono individuarsi in opere di indirizzo ancora realista come Poltrona e sciarpa gialla nello studio del 1967.
Libero da impedimenti ideologici e acrimonie, Bonini spegne l’invettiva e muta l’umore polemico in ironia, talvolta di sapore tanto sottile da sfiorare toni magrittiani. Queste giacche, alcune nuove e stirate, da vitellone, altre più vecchie e sdrucite, per
tutte le stagioni, ultima traccia, larve della coscienza di chi le ha indossate, simbolo della rinuncia alla propria immagine pubblica, attestano il ritiro in un mondo appartato, ma eticamente rigoroso. Restano le uniche spettatrici dei fenomeni naturali e del degrado che l’uomo
infligge alla natura. La loro presenza inquietante evoca altre presenze; così via via, un canneto, un mare, una finestra, una stanza si animano magicamente; ci costringono a osservare con occhi diversi i luoghi comuni del vivere quotidiano, a interrogarci sull’enigma
della loro presenza.
Diverso il discorso sui paesaggi: in alcuni della prima metà degli anni ‘60 il pittore posa uno sguardo sereno sulla natura, contrapponendo il silenzio al baccano della vita contemporanea.
Operando a spatola e grazie a suggestioni cézanniane e morlottiane, suggella nella materia pittorica e nel colore l’impronta del mondo fisico. In altri è un eccesso di zelo e precisione che tradisce, a confronto con opere coeve, la necessità di celare
inquietudini.
L’intima lotta tra la volontà di ritirarsi in silenzio e il desiderio di uscire allo scoperto si traduce nei solitari Battaglianti che brandiscono una selva di lance contro immaginari mulini a vento.
Dagli inizi degli anni ‘80 Bonini ritorna alle sue prime prove, quasi volesse chiudere attorno a sé, tramite le sue opere, un cerchio magico. Elabora in grandi olii i disegni di marinai degli anni ‘50: è ritorno tutto di memoria ad un mondo di cui a
Rimini rimangono ormai ben poche tracce. Figure senza volto, questi uomini che ci voltano ostinatamente la schiena, curvi su un oggetto di lavoro, o immobili in rassegnata attesa, si delineano come fantasmi di quella realtà che sola aveva reso il pittore veramente partecipe
proprio per la robustezza del messaggio umano ed etico che esprimeva.
Alla solitudine di questi uomini fa eco, in un abbagliante campo giallo, quell’Albero dal quale sembra ancora di sentire provenire il grido disperato del matto di “Amarcord”.
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Simonetta Nicolini
Da Demos Bonini, Rimini 1985.
Il mio amico Guttuso
“Il mio incontro con Renato Guttuso risale al 1950”. Il pittore riminese Demos Bonini ci racconta della sua amicizia con il celebre artista siciliano, scomparso recentemente.
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Guttuso era giunto in Romagna con la futura moglie, una nobildonna lombarda venuta a divorziare a San Marino. “L’ho conosciuto all’Aquila d’Oro, l’ho poi invitato nel mio studio che allora si trovava in via Dante, dove ora abito. Ha guardato i miei
quadri, abbiamo parlato e mi ha suggerito di fare una mostra a Roma. Ed io ci sono andato, lui mi aveva offerto ospitalità nella sua bottega, in attesa di poter esporre in qualche sala libera”.
Bonini poté presentare le sue tele al pubblico capitolino solo dopo qualche mese. In quel periodo, rimase a lavorare nello studio di Guttuso, a cui faceva “un po’ da segretario”. Lo studiava, mentre preparava quadri che sarebbero poi diventati celebri.
“In quel momento stava elaborando una tela enorme, la Battaglia di ponte Ammiraglia, sei metri per tre, piena di ritratti e di figure, molte delle quali erano di compagni di partito. C’è anche un suo autoritratto: è Guttuso quel soldato caduto all’indietro”, ricorda
Demos.
I rapporti di Guttuso e Bonini si fanno sempre più cordiali: “Gli ero diventato amico. Quando lui doveva andarsene fuori per lavoro (scenografie e costumi per le rappresentazioni teatrali, ad esempio), dovevo aspettare un mercante che gli pagava 80 mila lire ogni
disegno. Una cifra favolosa per quei tempi”.
La sera, talora, il giovane Demos conversava con la matura signora Mimise, “una donna eccezionale, piacevolissima come persona, l’unico vero amore di Guttuso”.
Guttuso ed amici avevano costituito una specie di cenacolo che si ritrovava nelle osterie romane. “Spesso - ricorda Demos - dovevo disertare gli incontri, perché non avevo una lira. Non uscivo di casa e me ne stavo a letto”.
Con un ritratto eseguito per un facoltoso committente, arrivarono i primi guadagni, 80 mila lire, come per un disegno di Guttuso. La frequentazione degli amici riprese. Guttuso gli chiese: “Ma dove sei stato finora, fuori Roma?”. “No, chiuso in casa, senza soldi” rispose
Demos che commenta: “Allora Guttuso mi disse una cosa che forse poteva essere antipatica: non chiedermi soldi, perché non li ho. Stando con me, puoi conoscere Roma”.
“A me non interessava farmi pagare per fargli da segretario o da aiuto. Mi era utile vederlo lavorare. Era un mago. Picasso gli aveva detto, pochi mesi prima, nella cappella Sistina in Vaticano, che loro due erano gli ultimi pittori con capacità michelangiolesche”, ricorda Bonini
che aggiunge: “Non volevo soldi, era contro il mio carattere. Cercavo soltanto di imparare”.
Dopo la mostra, Demos ritornò a Rimini: “Roma è una città suggestiva, è bello sedersi in piazza di Spagna e godersi la luce ed i monumenti, senza lavorare. Rimini mi è sempre piaciuta per viverci. A Rimini potevo lavorare. Poi certe cose
non mi piacevano”.
E qui Demos racconta le tavolate in trattoria a cui intervenivano Moravia, Antonello Trombadori, Amendola e Pajetta.
“Pajetta stava sempre zitto, serio. Chiuso. Perché - chiesi a Trombadori. Vigilanza rivoluzionaria, mi rispose. Ciò mi dava fastidio. Quella sera, me ne sono andato in un altro tavolo. A Guttuso che me ne chiese la causa, risposi che la vigilanza rivoluzionaria mi mandava di traverso
il mangiare”.
La battuta non piacque, “dette noia”. Ma Demos è fatto così: “Ho sempre avuto il bisogno di essere libero. Ho fatto la guerra di liberazione, ma non figuro fra i partigiani e così ho perso sette anni di anzianità, per la pensione”.
Tornando a Rimini, ho scelto la mia libertà, fra le cose più vicine e congeniali. Lasciare Guttuso è stato difficile. Eravamo proprio amici, poi avevo una grande ammirazione per lui come pittore”.
Come lavorava, quale stile caratterizzava allora Demos?
“La nostra era una strana pittura, in quegli anni - risponde -. Ero nel periodo che chiamo post-cubista, ecco guarda questa natura morta, nascosta sopra quell’armadio, c’era il figurativo, l’espressionismo. Dal contatto di tanti di noi con Guttuso, nacque ‘Realismo’,
una corrente che ci offriva una visione più nitida delle cose. E a Rimini eravamo tutti realisti, Mori, Benzi, Miselli. Poi alcuni si sarebbero dissociati ... Io sono rimasto realista, per farmi capire meglio”.
Il discorso ritorna su Guttuso e la sua scomparsa: “Mesi fa un mercante che venne a visitarmi mi disse che ormai non c’erano più speranze. Sergio Zavoli me lo confermò”.
Dopo la morte, le polemiche sulla conversione: “Ogni uomo ha il diritto di scegliere e di fare secondo coscienza - dice Bonini -. Tutti noi possiamo un giorno ritornare alla fede che da fanciulli ci faceva dire le orazioni, quando la mamma controllava se le avessimo recitate
davvero”.
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Antonio Montanari
Da “Il Ponte”, anno XII, n. 5, Rimini 8 febbraio 1987
Pittore realista per farmi capire
Il pittore Demos Bonini si è spento il 20 agosto, a 76 anni. E’ un altro pezzo dì una certa Rimini che scompare, a pochi giorni dal decesso di Glauco Cosmi (attento tessitore di trame culturali che spaziavano dal giornalismo alla musica), e nello stesso
anno in cui ci ha lasciati Gianni Quondamatteo, uomo così semplice e genuino da ricercare in ogni attimo uno spazio per la riflessione sui valori che si vedono tramontare, in questa città divenuta alienante e quasi invivibile.
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Bonini debutta in coppia con Federico Fellini, nel 1937, aprendo in via IV Novembre una bottega della caricatura. Ad Urbino, intanto, frequenta l’Istituto di Belle Arti. Poi la guerra.
Nei giorni della “repubblichina”, sul finire del ‘43, il ras fascista Paolo Tacchi lo arresta assieme ad altre Otto persone e lo consegna ai tedeschi. Liberato, Bonini si dà alla macchia: “erano tempi difficili in cui anche gli amici e i compagni
ti venivano a mancare”, racconterà a Ghigi. “Ho fatto la guerra di Liberazione, ma non figuro tra i partigiani, e così ho perso sette anni di anzianità, per la pensione”, mi raccontò per “Il Ponte” (8/2/1987).
Nel 1950 c’è l’incontro con Guttuso, giunto in Romagna con la futura moglie, una nobildonna venuta a divorziare a San Marino. “Ha guardato i miei quadri, abbiamo parlato e mi ha suggerito di tenere una mostra a Roma”. A Roma,
Bonini fa “un po’ da segretario” a Guttuso: “Non avevo una lira. Non uscivo di casa e me ne stavo a letto”. Demos si considera l’allievo che vuole imparare la lezione dal maestro: “Mi era utile vederlo lavorare. Era un mago”.
Poi, il ritorno a Rimini (“Mi è sempre piaciuta per viverci, qui potevo lavorare”), e l’adesione a “Realismo”, “una corrente che ci offriva una visione più nitida delle cose”, spiegava: “Una pittura per farsi capire
da tutti”.
Bonini, ad un certo punto, sembra trovare una sua sigla specifica nelle “giacche”, così come Morandi l’aveva scoperta nelle “bottiglie”. Ma dietro questi oggetti, non c’è soltanto l’intento di riprodurre cose, le cosiddette “nature
morte”. Anche la sua pittura è la ricerca di un significato nei simboli, di quello che Montale ha chiamato il “segreto” celato dietro “l’inganno consueto” delle nude immagini quotidiane.
Ai paesaggi, negli ultimi anni, aveva affiancato altre opere che denunciavano il degrado della nostra vita. La polemica contro la rumorosa civiltà contemporanea, l’ha espressa nella “Grande piramide” di moto ammucchiate, a metà strada fra una
montagna dei rifiuti e l’idolo sacro a tanti giovani.
In un freddo, lunare grattacielo con i cento ritratti di politici (“Tutti prigionieri nello stesso condominio”), c’è l’allegoria dei misteri e delle corruzioni italiane. Infine, nella bizzarra “Calata dei giustizieri”, ha dipinto
tanti strumenti per purificare gli intestini (o le coscienze?), dagli intrallazzi e dalle stupidità collettive del mondo contemporaneo.
Apprezzato e conosciuto in tutt’Italia, Bonini aveva una suo modo di raccontarsi, ironico e pungente, ma sempre sincero.
A Rimini ha anche insegnato, lasciando nei suoi allievi un ricordo affettuoso. La città lo ha visto come un protagonista, sempre discreto, ma pronto anche alla provocazione intellettuale.
Non gli piacquero le statue astratte, esposte per qualche anno in Piazza Cavour: lo aveva detto con una satira affissa ad una finestra del suo studio, che si affacciava sul retro del Palazzo dell’Arengo. Qualcuno se la legò al dito.
Quando il Comune, per volontà del sindaco Conti, nel 1985 rese omaggio ai suoi 50 anni di attività con una mostra antologica, ci fu chi, al suo sarcasmo dettato da ragioni estetiche e civili, rispose con un attacco ingeneroso, pieno di quel livore che la vita
provinciale sa far lievitare lentamente, con ridicole gelosie infantili.
“Non volevano la mostra”, mi raccontò sorridendo, “perché dicono che si rende omaggio soltanto ai morti. Mi dispiace che non li ho potuti accontentare”.
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Antonio Montanari
Da “Il Ponte”, anno XVI. n. 31, Rimini I settembre 1991
Demos, personaggio straordinario
Fra i genitori delle mie compagne della scuola elementare, professionisti ed impiegati per la maggior parte, si distingueva, per il nome inconsueto Demos e la professione rara, un pittore.
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Da sempre attratta dalle forme e dai colori, l’artista anche allora mi sembrava un personaggio straordinario. Questi lontani ricordi sono i primi che mi legano a Demos Bonini che posso dire di conoscere, dunque, da tutta la vita; gli ultimi, invece - lontani oltre quarant’anni
dai primi - sono di pochi giorni. Lo incontravo quasi ogni mattina, lui camminava piano piano vicino a casa, io accompagnavo mio padre in lentissime passeggiate in compagnia di ricordi lontani e bellissimi, ogni giorno più lontani, mentre quelli di ieri si fanno confusi.
In queste occasioni un saluto e qualche frase amara sulla lentezza dei loro passi, sulla necessità di farsi aiutare per camminare, sul tempo che passa veloce e non ha pietà.
Nei primi mesi di quest’anno avevo avuto un’occasione preziosa per vederlo e parlargli spesso e dell’unico argomento che, credo, ancora lo interessasse: la pittura.
Per preparare un breve profilo ed una mostra delle opere del Conte Andrea Baldini avevo pensato infatti di attingere alle fonti dirette che mi erano più vicine; mio padre e Demos, entrambi, sia pur in tempi e modi diversi, erano stati amici del pittore.
Demos era già ammalato, ma non soffriva solo il suo corpo, era lo spirito che si andava spegnendo; si chiudeva infatti ogni giorno di più in una cupezza profonda e fastidiosa che gli rendeva estranea ogni cosa, che lo aveva allontanato dai colori e dai pennelli,
che lo teneva lontano dal suo studio.
Forse per accontentarmi con la squisita gentilezza che sapeva trovare sotto l’aspetto vagamente burbero, aveva incominciato a studiare con me i quadri di Baldini e davanti a quelle immagini dalla sua memoria avevano incominciato a zampillare ricordi di stupefacente
freschezza, episodi così vivi che sembrava che fuori dallo studio ci fosse ancora, palpitante di vita, quella Rimini che invece è scomparsa da decenni.
Dalle sue parole nascevano straordinari ricordi: le case coloniche con i pagliai a Covignano, i sentieri freschi e silenziosi della campagna, il greto del fiume con la ghiaia e i pioppi, il mare che entrambi amavano moltissimo con le barche a vela e le donne che raccoglievano
le poveracce!
“Ecco! Qui eravamo alla sinistra del porto, andavamo sempre lì perché era una zona più appartata, non c’era nessuno e Andrea era molto timido, non gli piacevano i curiosi; siamo nell’autunno del trentanove; questo è Covignano, davanti al cancello di una
casa colonica, io la dipingevo da una parte, lui dall’altra, eravamo andati su in bicicletta, come sempre, questo è del quarantuno, la primavera del quarantuno; ecco, qui, nel suo autoritratto, aveva voluto imitare i modi del realismo, siamo negli anni cinquanta dopo che ero tornato da
Roma.
Riviveva con molta gioia - voglio sperarlo, visto che gli imponevo uno sforzo di memoria notevole! - quegli anni lontani, quelle esperienze giovanili, quei momenti fondamentali della sua formazione e della sua attività di pittore.
In quel periodo, pur soffrendo molto per la crudele ferita che non si sarebbe più rimarginata, mi aveva offerto il suo aiuto con uno slancio certo straordinario in un momento della sua vita nel quale sembrava spento ogni altro entusiasmo, ma pur essendo disposto a
fornirmi materiale prezioso per il lavoro che andavo facendo, aveva posto un diniego gentile ma fermissimo all’invito di presenziare alla presentazione al pubblico dell’opera di Andrea Baldini. Non avevo insistito pur molto dispiaciuta - anche mio padre aveva
posto lo stesso rifiuto per analoghe ragioni.
Nella tarda primavera di quest’anno sono andata a trovarlo nello studio ed ho avuto la gioia di trovarlo con i pennelli in mano, gliel’ho fatto notare sorridendo, lui ha risposto quasi con pudore, “sì, ho ricominciato!…”
In quell’occasione, con un gesto che lui stesso aveva definito raro “io non regalo le mie cose se non molto raramente e solo alle persone che mi sono più vicine!” aveva voluto regalarmi un suo bel disegno degli anni cinquanta con i marinai sul porto;
gesto squisito che ho molto apprezzato, insieme alle parole della moglie che, con sensibilità delicatissima, volle farmi poi sapere quanto gradite fossero le mie visite a Demos e quanto bene facesse al suo spirito parlare di pittura e di pittori con me.
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Anna Maria Graziosi
Da “Il Ponte”, anno XVI, n. 31, Rimini 1 settembre 1991
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